La scorsa primavera Massimiliano Balduzzi mi ha invitato ad aprire il primo appuntamento de “GLI AUDACI CANTORI”, una meravigliosa serata ispirata agli incontri di storytelling contemporaneo dove il pubblico può ascoltare quattro storie legate da un tema comune. Tema della serata: i sogni dismessi.
La domanda che Massimiliano ha posto a noi quattro cantori è stata: ‘mi racconti del giorno in cui hai smesso di sognare per cominciare a realizzare il tuo sogno?’ Quella che segue è la mia risposta, ovvero il mio personalissimo racconto.
Quando Massimiliano mi ha chiamata per chiedermi di partecipare a questo progetto come cantore, ovvero di raccontarmi davanti a tutti, mi sono detta subito NO. Non ci penso neanche. Ho paura, lo stomaco si è già chiuso e mi tremano già le gambe.
Poi sono andata a farmi una doccia, e quando sono uscita il mio no era già diventato un ni.
E poi, il giorno dopo, ascoltando la voce sorridente di Massimiliano e il sottofondo dei rumori di Manhattan, ho detto sì.
E ho detto sì per due motivi.
Il primo è che credo e professo la libertà di scegliere e non mi sta bene quando è la paura a scegliere per me;
il secondo è che credo così tanto in questo sogno – che è diventato un progetto – che c’è una forza che mi spinge a raccontarlo, nonostante la salivazione a zero e le gambe che tremano.
Il mio sogno ha smesso di essere un sogno nel 2015. A quel tempo lavoravo come consulente aziendale risorse umane e organizzazione. È un bel lavoro, interessante e dinamico dove si imparano tante cose, si conoscono tante persone e si vedono tante realtà. Ma io non stavo bene. Non so ancora se per il lavoro in sé, se per il contesto aziendale, se per i vestiti che dovevo indossare per andare a lavorare.
Sulla brochure che pubblicizza i miei servizi di orientamento c’è una famosa frase, che dicono sia di Einstein, che dice “Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido”
Ecco io mi sentivo come quel pesce rossiccio, con le squame, la coda e le pinne, che fatica a salire sull’albero con intorno tanti scoiattoli agili, color miele, eleganti, che parlavano tra loro usando la lingua degli scoiattoli, che a me risultava così complicata.
E più mi chiedevo perché non riuscissi a salire e più la mia salita diventava goffa e affannosa.
Non lavoravo male, ma non salivo.
E ciò che più frenava e bloccava la mia salita era parlare in pubblico. Potevo fare colloqui individuali, interviste, analizzare dati e disegnare processi, ma quando dovevo parlare in pubblico il tronco del mio albero diventava così ripido che indietreggiavo.
Beh insomma, nel 2015:
e quindi sono tornata, ancora una volta, a guardare il programma del Master in Orientamento sul sito della scuola Seafo di Castellanza. La 19ma edizione.
Qualche tempo fa, riorganizzando i documenti nel mio computer (attività che svolgo quando ho bisogno di fermarmi e mettere ordine nella mia testa) ho scoperto che nel 2009 avevo salvato tra i miei documenti personali la locandina della prima edizione del Master in Orientamento Professionale e Outplacement. 7 anni di attesa. Si vede che doveva andare così.
Nel 2015 non ho fatto “salva e archivia” ma sono andata a fare il colloquio di selezione, ho frequentato nei week end e studiato la sera dopo cena e durante le vacanze di Natale. Ho scritto la tesi e sono riuscita ad esporla senza morire di paura.
E poi, ero pronta per cominciare. Mollare progressivamente il mio lavoro e lanciarmi. Una parola…
Dopo qualche mese, durante un pranzo con un amico, gli ho chiesto: se mi guardi, cosa vedi?
E lui mi ha detto: vedo una Ferrari, nuova, fiammante, con il pieno di benzina, il motore accesso e il freno a mano tirato.
Ho “preso il feedback”, me ne sono tornata a casa, ho definito il mio piano di lavoro e ho tolto il freno a mano.
E non mi sono più fermata. O meglio: in alcuni momenti corro, in altri momenti arranco ma sono un pesce rosso e nuoto e non ho più bisogno di salire sugli alberi. E’ una sensazione meravigliosa. Faticosa, paurosa ma meravigliosa.
La cosa più bella è che il mio lavoro consiste nel fornire alle persone il metodo e gli strumenti per identificare il proprio sogno e lavorare per farlo diventare un progetto. Tutto il resto, i contenuti, le competenze, la passione e le energie ce le devono mettere loro.
Nella mia esperienza professionale ci sono tante persone normali (anche se sappiamo bene che da vicino nessuno è normale), nessuna (al momento) è diventata astronauta, nè influencer, né blogger di successo. Nella mia esperienza ci sono storie di persone che hanno capito cosa vogliono fare, che sono sulla strada per raggiungere il proprio obiettivo o che lo hanno finalmente in pugno.
E poi ci sono le persone che il salto non lo hanno fatto, ma che hanno scelto – con libertà e autonomia, ed assumendosi la responsabilità della propria scelta – di non andarsene dal proprio lavoro. E così hanno cominciato a costruire internamente all’azienda una soluzione al proprio disagio.
Non tutte le storie hanno un lieto fine e non tutte le persone realizzano il proprio sogno. A volte il sogno non si vede nemmeno perché è nascosto dalla paura, dall’abitudine, dalle convinzioni sociali (come ad esempio l’idea che per essere un buon genitore sia più importante il posto fisso che essere felici, o che per avere riscontro sociale si debba avere un ruolo riconoscibile e preconfezionato), dalla responsabilità della scelta di perseguirlo (“se fallisco ora, sarà solo colpa mia…” e a volte serve qualcuno che ci dica ‘sì, ma hai pensato che se avrai successo in questa impresa sarà solo merito tuo?’)
Io provo ad aiutare le persone a concedersi la possibilità di visualizzare il sogno. E poi a darsi dei tempi, priorità, scadenze e un serio e dettagliato piano di lavoro. Altrimenti il sogno non smette di essere sogno e non diventa mai progetto.
E poi lavorare sulla consapevolezza delle proprie competenze e su ciò che invece non ci viene facile e che dobbiamo imparare, studiare, cambiare (ad esempio parlare in pubblico!)
E infine ammettere la possibilità di fallire: può essere che, alla fine, questa cosa non funzionerà e allora bisognerà prevedere un piano b, da mettere in parallelo oppure da far partire dal giorno dopo.
Durante questo percorso tutte le persone che incontro mi lasciano un pezzo di vita, mi regalano la loro fatica di prendere in mano la propria storia e lasciare il giudizio di sè fuori dalla mia porta.
Chiudo semplicemente dicendo a che punto sono arrivata del mio “non più sogno”:
sono a buon punto, ho sempre in mente l’obiettivo, lo intravedo, ma soprattutto guardo al viaggio e me lo godo.
E’ andata a finire che non solo sono sopravvissuta al palcoscenico, ma mi sono divertita, ho conosciuto persone incredibili e ho costruito un ricordo che rimarrà nella mia memoria tra i momenti più belli. Grazie ancora Massimiliano!